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Sperava di vedere un folletto che gli offrisse una borsa piena d'oro, oppure un anello magico. Egli desiderava tanto una cosa simile, che per conquistarla avrebbe dato volentieri la salvezza della sua anima.
Il padre quando fu per morire lo ammonì di conservare puro il suo cuore dalle tentazioni del Maligno. Quando il ragazzo ebbe sepolto il padre rimase solo nella misera capanna: il pane non gli bastava più, il fuoco non riusciva più a riscaldarlo e così egli decise di vendere, prima di partire, il poco che gli era rimasto per andarsene poi nel vasto mondo.
Egli prese con sé soltanto il suo flauto e pensò che per vivere si sarebbe arrangiato finché non fosse riuscito a trovare un tesoro.
Così si mise in cammino; col suo flauto suonava alle feste nuziali, nei balli festivi, dietro i funerali, e quel poco che guadagnava gli bastava per vivere.
Una sera egli stava seduto sul muro di un cimitero guardando la piccola cassa di un morticino che veniva sotterrata. Il ragazzo era affamato perché in tutta la giornata non era riuscito a guadagnare nemmeno un soldo.
Quando la luna fu alta nel cielo la madre del morticino ritornò, di soppiatto e depose un pane e una brocca d'acqua sulla tomba del figlio, perché la povera gente ancora credeva che i morti, nel loro viaggio verso l'aldilà, avessero bisogno di cibo e di bevande per arrivare alle porte del Paradiso, altrimenti sarebbero rimasti lungo la strada fino al giorno del Giudizio. Quando la donna si fu asciugata le lacrime e se ne fu andata silenziosamente, il ragazzo afferrò il pane e la brocca e fuggì nell'ombra pensando: "Tanto gli uccelli lo avrebbero divorato ugualmente". Da allora si cibava del pane posato sulle tombe: si sentiva attratto come se quel cibo gli spettasse di diritto.
In una notte di luna piena, egli mangiò il pane dei morti per la settima volta. Ad un tratto la luna piena salì alta sulla foresta e il ragazzo scorse, accanto a sé, un ometto dalle lunghe membra e dalla testa coperta da un berretto appuntito da cui pendeva un pennacchio che ricadeva sul viso scarno. L'ometto disse:
«Io so da molto tempo, amico mio, che sei disposto ad aiutarmi nel mio lavoro e non voglio farti mancare la mia gratitudine e la mia ricompensa. Ma tu sei un po' lento in questo lavoro, forse è meglio fare un piccolo contratto, per essere più chiari. Vedo che ogni tanto tu rubi il pane dei morticini, così i bambini morti si arrestano nel lungo viaggio e trovano più facilmente la strada per venire a casa mia. E da me trovano subito una stufa e un cibo caldo, e non sono più costretti a camminare. Ora ti propongo questo patto. Ogni volta che un bambino verrà sepolto e le campane suoneranno, in quella sera stessa tu dovrai mangiare il pane deposto sulla tomba. Io ti darò tanto oro e argento quanto tu potrai desiderarne. Ma non prima che tu mi abbia procurato mille piccole anime».
Il ragazzo scosse la testa e disse:
«Io vorrei avere abbastanza oro da smettere di girovagare e di mendicare; ma non è il caso di parlare di mille piccole anime: sono troppe».
«Bene», disse lo sconosciuto, «allora facciamo cento anime».
Il figlio del pastore esitava.
«Ma tu farai del male a quei fanciulli?», chiese ancora all'ometto.
«Fa male, forse, la fiamma del focolare?», disse di rimando l'uomo dal cappello a punta. «Ed è forse un male una stufa calda per il viandante?»
«Questo no», disse il ragazzo. «Ma dove sta la tua casa e qual è il tuo nome, e di dove vieni?».
«Mi chiamano il Padre del Calore», rispose lo sconosciuto, ghignando.
«Dunque, cento piccole anime», ripeté il "Padre del Calore". «E non dimenticare di seguire il suono delle campane ogni volta che lo senti».
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Venne finalmente la sera in cui il ragazzo stava in un piccolo cimitero abbandonato, intento a divorare la centesima pagnottella e a bere l'acqua fresca della centesima brocca. Il patto era adempiuto.
«Così va bene», disse l'ometto, «anche se tutto ciò è durato un po' troppo a lungo. La colpa, però, è di Comare Morte, che è stata un po' lenta in questi ultimi anni. Ma a questo non ci si poteva fare nulla. Ecco il denaro promesso. Quando lo avrai terminato, non avrai che da ritornare sotto ad una pianta di pioppo e dire: Anime, anime dei morticini, datemi ancora i vostri panini. E allora le foglie del pioppo cadranno a terra e quante foglie saranno cadute, tante monete tu potrai portare a casa».
Ciò detto, depose sull'erba la pesante borsa e scomparve come se la terra l'avesse inghiottito.
Il figlio del pastore col denaro ricostruì la sua casa come un castello. La sala grande splendeva sempre nel chiarore di mille candele e flauti e violini risuonavano nella notte. Pareva che un fiume di abbondanza si riversasse nel povero paese. Il padrone del magnifico castello era triste.
Ogni notte, quando l'ora dodicesima stava per scoccare, i servi portavano in sala, su piatti d'oro, cento panini e li allineavano silenziosamente sulla bianca tovaglia. I servi non mancavano mai di posare una brocca piena d'acqua. Diverse volte, gli ospiti avevano chiesto al padrone del castello il motivo di questa usanza; ma egli aveva scosso il capo e mormorato: «Questo è il pane dei morti». Non una parola di più.
Nessuno degli ospiti poteva toccare i pani e l'acqua, ma appena questa roba veniva messa in tavola, essi sapevano che quello era il segnale per cui dovevano cessare i canti e le risa. Allora gli ospiti si congedavano.
Per paura di ritornare povero, una sera egli si recò al boschetto dei pioppi vicino ad un ruscello, si fermò sotto le fronde e disse: Anime, anime dei morticini, datemi ancora i vostri panini.
Appena ebbe pronunciato quelle parole, un soffio di vento passò tra i rami degli alberi e una pioggia di foglie cadde a terra trasformandosi in grandi monete d'oro. Allora il figlio del pastore riempì di nuovo il borsellino e le tasche del suo abito e ritornò verso casa.
Quella sera stessa, dopo che gli ospiti e i servi se ne furono andati, ed egli era rimasto a guardare le due file di pani e di brocche, improvvisamente tutte le candele si spensero e si udì, nello stesso istante, scricchiolare il legno del soffitto, mentre le porte si aprirono di scatto. Ed ecco una lunga schiera di bambini entrare lentamente nella sala. Essi avanzavano tenendosi per mano. Indossavano vesti bianche e qualche fanciulla aveva una coroncina di violette sul capo. La cosa più terribile erano i loro occhi chiusi, con lunghe palpebre che ombreggiavano le guance: parevano tanti piccoli ciechi.
Il figlio del pastore contò e vide che i bambini erano cento. Il più grandicello disse in un soffio:
«Rendici il nostro pane!».
«Prendetelo pure!», disse il figlio del pastore tremando, «prendetelo pure. C'è un pane per ognuno di voi».
Ma i fanciulli scossero lentamente la bianca fronte e il più grandicello disse ancora:
«Questo non è il nostro pane e questa non è la nostra acqua. Il nostro pane era bagnato dalle lacrime delle nostre madri, e l'acqua delle brocche era mescolata con quelle lacrime. Non possiamo mangiare questo pane che non è bagnato di lacrime».
Il figlio del pastore, nella sua disperazione, chinò la fronte sul pane versando lacrime amare. Non appena le prime lacrime caddero sulla dura crosta dorata, il primo bambino aprì i suoi occhi, prese il pane dalla sua mano, lo ruppe e lo mangiò. Così, uno dopo l'altro, tutti i bambini gli si avvicinarono ed egli porgeva loro i pani, dopo averli bagnati con le sue lacrime. Poi tutte le mani gli tendevano la brocca affinché una delle sue lacrime cadesse nell'acqua. Infine egli chiese loro dove andassero ora. Essi esclamarono tutti insieme: «In Paradiso!».
L'indomani mattina, quando i servi entrarono nella sala, trovarono il loro padrone morto, nella sua poltrona. Le candele erano spente, i panini e le brocche erano scomparsi e l'uomo riposava in pace.
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